1° Classificato Narrativa: Stefano Minari con “Il tempo dei draghi tagliati a fettine”
«Quella lassù sembra una farfalla. Guarda che bella!»
«E invece, là in fondo ce n’è una che sembra un drago. Con la coda lunga. Accipicchia, come corre! Secondo me sta rincorrendo la tua farfalla, per mangiarsela» ribatte Luisa, ridendo.
«Ma i draghi non mangiano le farfalle!» obietta subito Maria. «Nella storia che mi legge la mamma c’è una famiglia di draghi che mangiano tanta frutta. E anche l’insalata e i pomodori, perché la verdura fa bene. No, no, le farfalle non le mangiano mica. Stasera lo chiedo ancora
alla mamma, ma sono sicura di no.»
«Invece, nel libro che mi ha letto papà c’è un drago cattivissimo che mangia gli gnomi della foresta; allora, il loro re va a chiedere aiuto al principe del castello, che si mette una armatura magica e taglia il drago a fettine. Perché il principe non è mica stupido e senza l’armatura il
drago poteva incenerirlo con una fiammata, quindi prima di andare a combatterlo, il principe chiede aiuto ad un mago buono, che gli costruisce una corazza speciale in officina. Papà mi ha
fatto vedere anche la foto di quelle che prepara lui.»
«Tuo papà fa le armature per i principi?»
«Certo! Di solito costruisce automobili, ma mi ha detto che il mago ultimamente è molto impegnato e allora quando un principe ha bisogno di un’armatura, va dove lavora lui e se la fa fare. Però non ci sono molti principi in giro e allora papà è spesso a casa, perché ha poco lavoro.
L’altra sera ho sentito lui e la mamma che dicevano che la fabbrica è chiusa, perché di macchine non se vendono abbastanza. La mamma piangeva, si lamentava che c’erano a malapena i soldi per il pane. E allora io sono rimasta nascosta dietro alla porta ed ero triste, perché a me il pane piace un sacco. Poi però, ho pensato che se non c’è il pane, mangerò più biscotti!»
Le due bimbe scoppiano a ridere, immaginando un principe grasso, che, proprio a forza di mangiare biscotti, non trova più l’armatura della propria misura e deve proteggersi la pancia con il cofano di una automobile. Il cemento bollente del marciapiede diventa la tavola
imbandita dove si celebra il banchetto in suo onore, ma il mago ha deciso che è ora che si metta a dieta. Inizia quindi un andirivieni verso l’aiuola per preparare il piatto principale, un’insalata mista di fiori di tarassaco, margherite e foglie di nocciolo, servita dentro a un piatto di plastica, che per magia diventa un vassoio d’argento. Il sole di luglio costringe le cicale a coprire il rumore di fondo della strada, senza però disturbare la festa, finché un’ombra all’improvviso attira di nuovo verso l’alto gli sguardi delle due amichette.
«Guarda! Il tuo drago è sparito! Forse è arrivato il principe che l’ha tagliato a fette. Luisa, la prossima volta che viene un principe dal tuo papà, potrebbe chiedergli di portargli delle fettine di drago, in cambio dell’armatura.»
Maria scoppia a ridere, perché l’idea delle bisteccone di drago sulla griglia le sembra divertente, ma poi vede che Luisa di ridere non ne ha tanta voglia. I soldi per il pane ancora ci sono, ma quelli per le vacanze, no. E non è estate, se non si va in vacanza. È divertente starsene con Maria a guardare il vento che gioca con le nuvole, ma era stato bello lo scorso anno anche giocare a fare i castelli di sabbia e i tuffi in acqua, usando le spalle di papà come trampolino.
«Colpa di quei figli di buona donna che hanno svenduto tutto, si tengono i soldi in tasca e vanno a costruire le macchine da un’altra parte.»
Luisa non aveva mai sentito papà urlare a quel modo in casa e poi non sapeva bene cosa volesse dire “figli di buona donna”. Aveva poi detto delle altre cose che lei non aveva capito bene, ma poi era intervenuta la mamma a chiedergli di non dire parolacce in casa, che dopo Luisa le imparava e andava a ripeterle in giro.
«Quella nuvola sembra un maialino!» interviene Maria, per distrarre l’amica che sembra pensare ad altro. «Quello sì, che si può mettere sulla griglia. Papà Marco è un esperto. Quando vado da lui a mangiare, mi prepara degli spiedini stra-buoni. E poi la torta alle fragole coperta di panna. Che meraviglia! Papà Ciro invece si arrabbia, perché dice che mi vizia e allora litiga con mamma. Vorrebbe che io e papà Marco non ci incontrassimo spesso, ma gli voglio bene e con lui mi diverto un sacco. Lui è un cuoco e insieme prepariamo delle cose buonissime.
Anch’io da grande voglio fare la cuoca, proprio come lui.»
Il vento in quota si diverte a trascinare le nuvole attraverso il cielo e subito il maialino di Maria perde i contorni, preparandosi ad una nuova metamorfosi. Luisa intanto guarda l’amichetta con gli occhioni sgranati.
«Come mai tu hai due papà?»
«Non lo so. La mamma mi dice sempre che poi, quando diventerò grande, mi spiegherà tutto. Giura che lei vuole ancora bene a papà Marco, ma lui vive in un’altra casa e con noi c’è Ciro. Però, anche lui mi vuole bene; gioca con me, mi legge le favole e mi porta sulle altalene.»
«Che fortuna!» la interrompe Luisa. «Quindi per il tuo compleanno e per Natale ti arrivano un sacco di regali!»
«Beh, non ti preoccupare. Se hai un papà povero, ti presto uno dei miei.» aggiunge Maria con un sorriso. «Però, guarda che anche Ciro dice le parolacce. Ne sto imparando tantissime di buffe, ma la mamma si arrabbia, quando le ripeto. L’altra sera però, Ciro ne diceva un mucchio,
mentre litigava con papà Marco. So che parlavano delle vacanze, perché discutevano del fatto che hanno le ferie nello stesso periodo e quindi tutti e due vogliono prendermi con loro. Allora io ho detto che sarebbe fichissimo andare al mare tutti insieme, ma la mamma, invece di essere
contenta, è scoppiata a piangere. Io non ho mica capito. Se vuole bene a tutti e due i papà, perché, secondo te, si è messa a piangere?»
«Non lo so. I grandi a volte sono proprio strani. Quindi, alla fine con chi vai?»
«Boh? Mamma gli ha detto che piuttosto che vederli discutere, in vacanza mi ci porta lei da sola, ma allora si sono arrabbiati tutti e due e hanno iniziato a gridare ancora più forte. Hanno smesso solo quando mi sono messa a piangere anch’io, perché non ci capivo più niente. E allora, mamma mi ha portata a letto e mi ha raccontato qualche favola. Ma non mi sono addormentata subito. Volevo chiedere come mai i grandi litigano anche per andare in vacanza, invece di essere contenti che è estate e c’è un bel sole, ma lei piangeva ancora, mentre leggeva. E allora sono stata zitta, raggomitolata sotto il lenzuolo, con il naso che sbucava fuori.»
«Il mio papà, invece, ha delle ferie molto lunghe. Me lo ha detto ieri. La sua officina resta chiusa tutta l’estate,» dice Luisa. «ma mi sa che al mare non ci andiamo mica.»
«Ho un’idea» la interrompe Maria, entusiasta. «Io disegno tanti draghi coi gessetti. Tu là fai il villaggio degli gnomi e poi ci inventiamo dei principi che hanno bisogno dell’armatura, per combattere contro i mostri sputafuoco. Così il tuo papà gliela costruisce in officina, guadagna i soldi e potete andare al mare.»
«Fantastico! E guarda lassù, quello è il castello del principe!» aggiunge Luisa all’improvviso, con un dito puntato verso il cielo. «Lo voglio fare uguale uguale.»
Come se avesse ascoltato i loro discorsi, il vento si mette a disegnare degli strani pennacchi di nuvola, stira la scia bianca di un aeroplano, facendola sembrare un sentiero che scende dal castello verso chissà dove. Una selva fitta di torri prende forma sul cemento e domina dall’alto il villaggio degli gnomi col berretto rosso. Cinque draghi dai colori improbabili popolano il marciapiede; alcuni passanti si fermano incuriositi e, con un pizzico di invidia, tornano per un istante al tempo in cui anche le loro estati erano popolate di sole caldo, di nuvole e di draghi tagliati a fettine da principi coraggiosi. Altri vanno di fretta, ma comunque si spostano, scendendo sulla strada, per non rompere la bolla di fantasia in cui si sono rinchiuse le due bimbe, al sicuro dal mondo strano dei grandi. La mano di Maria dipinge una striscia azzurra al di sotto del castello e completa la scena con il sole sorridente e due piccole figure con fiocchi colorati che fermano le trecce nei capelli.
«E queste chi sono?» chiede Luisa.
«Siamo io e te» risponde Maria. «Siamo al mare insieme e ci divertiamo tantissimissimo.»
2° Classificata Narrativa: Laura Rossi con “Cambio di Stagione”
Gonna bianca in sangallo
“La tengo ancora? Ma no, è da buttare: ce l’ho da un sacco di anni e non la metto da… boh, non la metto da tanto tempo. Ormai mi sta larga” penso mentre sollevo la gonna tra le mani e la guardo in controluce, rivolta alla finestra. Ho sempre odiato il cambio di stagione: mia madre che si piazzava in cameretta e io mezza nuda, tra il letto pieno di vestiti e l’armadio aperto. Mezza nuda perché il cambio dell’armadio si faceva quando l’estate non era ancora iniziata, a maggio, come suggeriva la nonna (“Ad april, manco un fil… a maggio, adagio adagio”), e per non prendere freddo toglievo e provavo un pezzo per volta: nuda sopra per provare maglie e canotte, nuda sotto quando invece arrivava il momento di provare gonne e calzoncini corti, che col passare degli anni diventavano troppo corti (“Sei cresciuta, questi non ti vanno più bene. Li mettiamo da parte per tua cugina Luisa”).
“La tengo ancora?” Quel bottone della gonna in sangallo è proprio appeso per un filo. Non la indosso da anni e quindi non l’ho mai fatto sistemare a una sarta. Già, perché io purtroppo non sono capace nemmeno di attaccare i bottoni. Il fatto è che a queste cose di ago e filo, orli e asole, ci pensavano sempre le zie sarte e quindi non ho mai dovuto provarci, mettermi lì con impegno e imparare. La tengo lo stesso. Quel bottone dondola perché la gonna mi ha accompagnato in tante serate sulla spiaggia, nel viaggio in Grecia con i compagni di università: scavi archeologici assolati, epigrafi e musei di giorno, ouzo e souvlaki intorno al falò di sera. Una canzone strimpellata alla chitarra, come nei film, ma soprattutto l’eco dell’ode alla gelosia di Saffo: “Pari agli dèi mi appare quell’uomo che ti siede davanti e da vicino ti ascolta: la voce dolce e il sorriso accendono il desiderio”. E tormentano i bottoni…
Cappello di paglia
“Ah questo poi, non avrò mai più il coraggio di metterlo. Peccato, perché a Fabio piaceva così tanto: mi avrà fatto cento foto con su questo cappello.” Un cappello di paglia non serve, non è indispensabile, è un accessorio. Mi basta guardarlo e mi riporta a quell’estate del 2010, quando appunto avevo ancora il coraggio, la spensieratezza, la vanità di comprarmi (sì, comprare per me) un accessorio. E di soldi in tasca non è che ce ne fossero tanti: stavamo risparmiando entrambi per il matrimonio, data già fissata per l’anno seguente. Però non avevo mai avuto un cappello di paglia e quello mi era piaciuto fin da subito. Domeniche pomeriggio al lago, mattine fresche tra le bancarelle del mercato, una pedalata per le strade sterrate della nostra campagna e il cappello che vola via mentre affronto (senza frenare) la discesa. Vola via, leggero lui e leggera io. Lo tengo, in fondo all’armadio, questo ricordo di leggerezza.
Abito color senape della zia
E poi il giorno del matrimonio è arrivato. Pieno di sole, di sorrisi, fiori gialli… Mancava lei: la mia mamma non c’era già più, ma la zia Antonella era a tutti gli effetti la mia “mamma bis”, come diceva con orgoglio. Il suo abito color senape faceva risaltare i suoi occhi verdissimi e i suoi capelli corti e neri: poche donne ho conosciuto, che avessero lo stesso sguardo intenso e fiero. Sapeva essere allo stesso tempo moderna e saggia, divertente e provocatoria. Quando è morta anche lei, ho voluto tenere per me l’abito color senape che aveva scelto e comprato per il mio matrimonio. E lo terrò sempre, a ogni cambio di stagione, per ricordarmi di quell’estate in cui la zia Antonella mi ha insegnato a fare la moglie: “Quando stiri le camicie, se sei stanca, non perdere tempo in questa parte qui, tanto va infilata nei pantaloni”, “Nel primo cassetto della cucina metti coltelli, mestoli… le cose che usi più spesso, per averle a portata di mano”, “Questi teli di lino adesso ti sembrano tanti e inutili, ma quando dovrai cambiare e ricambiare pannolini a un bambino, vedrai, non saranno mai abbastanza”. Aveva ragione su tutto e forse già sapeva, mentre brindava agli sposi nel suo abito color senape, che il mio bambino purtroppo non l’avrebbe visto nascere, non avrebbe fatto in tempo a diventare anche “nonna bis”.
Maglietta a righe bianche e blu
“Con questo fiocco rosso sulla spalla dovevo sembrare proprio ridicola…” Forse agli occhi degli altri, ma non per lui, per Emanuele piccino, che adorava questa maglietta. E mi ritrovo a sorridere di me stessa, mentre piego e ripongo nell’armadio un altro capo che molto probabilmente non indosserò mai più. È nato un sabato mattina di giugno. A fine estate, quando iniziava a far guizzare a destra e a sinistra i suoi occhietti vivaci e curiosi, sembrava proprio ipnotizzato da questa maglietta di cotone a righe bianche e blu, con un buffo fiocco rosso sulla spalla sinistra. Era sempre affamato. Succhiava il mio latte e io contemplavo estasiata (e assonnata) le sue guance che si riempivano e svuotavano con ritmo regolare. La maglietta sollevata da una parte e il seno scoperto, i nostri odori mischiati: il latte dolciastro, il mio sudore, il detergente per neonati che ci avevano dato in reparto maternità. In quel momento, quando lo attaccavo al seno, tornavamo a essere una cosa sola. Ora Emanuele è adolescente e la magia si ripete di rado: quando mi “batte il cinque” per un bel voto a scuola, se per caso diciamo in contemporanea la stessa parola, o quando fa un incubo e si infila nel lettone. Riprendo in mano la maglietta a righe, ci affondo il viso e la annuso. È inutile: ora sa di ammorbidente.
Sandali in pelle
Il cambio di stagione non finisce con l’armadio. Eh no, anche se sono già stanca e stufa, poi arriva il turno della scarpiera: via stivali e scarpe chiuse, largo a mocassini e sandali (e alle immancabili vesciche, la prima volta che li indosso senza calze). “Questi sono stati proprio un bell’acquisto” penso soddisfatta. Sandali marroni in pelle, non troppo eleganti, non troppo vistosi, semplici e senza tacco per non rischiare di inciampare, in preda all’emozione. Si sono rivelati perfetti per l’occasione. Dopo tantissimo tempo, la scorsa estate ho ricominciato a scrivere. Prima non avevo il tempo, non avevo l’ispirazione e soprattutto il coraggio di specchiarmi nel bianco di un file ancora senza nome (Documento1, “Ma sì, ci provo…”). Piccola grande soddisfazione: salire sul palco e ritirare una targa con scritto il mio nome, il titolo di un mio racconto. Piccola grande soddisfazione: salire sul palco e vedere Fabio che mi scatta una foto, Emanuele che sorride orgoglioso. I sandali nuovi ai piedi, per salire con decisione i gradini di quel palco e ricordarmi che sono pronta al cambio di stagione: inizia un’altra estate.
3° Classificato Narrativa: Stefano Minari con “L’ultima campanella”
Giulia scorreva le pagine del registro una dopo l’altra, tornava indietro di qualche foglio e poi ancora avanti, come per imparare a memoria i voti e i giorni di assenza di tutta la classe. Il sole proiettava una luce allegra sulla cattedra, talmente intensa che la donna si era via via spostata sullo spicchio in ombra del tavolone di legno, per non restare abbagliata dal riflesso. Il cielo azzurro dietro alla finestra sembrava finto, come se tutte le nuvole fossero state messe in castigo, per non disturbare i bambini che fuori nel cortile stavano sfogando la loro vivacità, preparandosi per la lunga vacanza che avevano davanti. Le piante di gaggia attorno alla scuola erano affollate di insetti ronzanti, che facevano festa alle migliaia di fiori che riempivano l’aria del profumo d’estate. Inspirò profondamente ad occhi chiusi, richiamando alla memoria l’immagine della Giulia di tanti anni prima, saltellante ed orgogliosa della laurea appena conquistata, con un mazzolino bianco fra le mani.
«Ti porterò dei fiori», le aveva detto Marco la sera prima, salutandola con un bacio veloce sotto casa di lei, dopo la decima prova di esposizione della tesi, ascoltata con pazienza sopra una panchina del giardino.
«Non pensarci neanche!» lo aveva bloccato lei, subito. «Non abbiamo neanche una lira, figurati se ti faccio spendere dei soldi per dei fiori, che dopodomani sono da buttare via!»
Ma Marco era uno di parola: fiori aveva promesso e fiori dovevano essere. Strappati dagli alberi che costeggiavano il torrente, stando in piedi sulla canna della bicicletta appoggiata al tronco, con un equilibrio degno di un acrobata del circo. Quando passava sotto quell’ombra, pedalando come un matto, per non fare tardi a lezione in università, gli piaceva annusare il profumo che invadeva l’aria. Tuttavia, il giorno della laurea di Giulia era talmente ansioso da dimenticare che le gaggie sono piene di spine appuntite come spilli, ma bastò il primo rametto, afferrato in salto con la mano, a farglielo tornare in mente. Non era bastato a dissuaderlo, Marco era uno che manteneva le promesse. Sempre. Compresa quella pronunciata davanti ad un altare quasi quaranta anni prima. Il rumore di una pallonata contro il cancello e l’urlo di una squadra di ragazzini che esultava per il gol, la fece ritornare con la mente nell’aula. La lavagna, rimasta in ombra, era ricoperta di messaggi per lei, che avevano magicamente sostituito le parolacce e gli insulti fra compagni di classe che ogni tanto le era toccato cancellare, trapassando le file dei banchi con gli occhiacci cattivi, nella speranza che il colpevole non reggesse la pressione e diventasse rosso come un pomodoro maturo, confessando senza aprire bocca.
“Grazie maestra e buon riposo”. “Ti vogliamo bene, maestra Giulia”. “Ti verremo a trovarti!”
Non serviva l’errore di grammatica, per capire chi era l’autrice dell’ultima riga. Avrebbe riconosciuto quella scrittura fra mille, il tratto insicuro, il punto esclamativo messo in fondo a ogni frase, le lettere tutte vicine, come se dovessero proteggersi dall’arrivo del cancellino. Eppure, la piccola Martina in futuro avrebbe stupito tutti, ne era certa. Fino a qualche anno prima era un uccellino triste, che quasi si rifiutava di prendere in mano la penna e di imparare qualunque cosa, poi l’arrivo di una famiglia vera, che l’aveva tirata fuori dall’istituto, l’aveva trasformata in una bambina esplosiva, col sorriso sempre dipinto sulle labbra.
«Auguri piccola» sussurrò, come se le stesse parlando direttamente, mentre in cortile giocava a calcio coi maschi della classe e gli faceva mangiare la polvere con i suoi scatti da centometrista. Al di là della cancellata, la mamma di Martina seguiva le corse del suo furetto con i capelli neri, spalancando gli occhi ogni volta che qualche compagno di giochi provava a far valere il proprio fisico più massiccio.
«Non si preoccupi, signora» pensò la maestra. «Quella bambina è indistruttibile.»
Come se avesse percepito il suo pensiero, Martina in quell’esatto momento calciò il pallone con tutta la forza che aveva, lo mandò a sbattere contro l’angolo basso del portone, facendolo risuonare come un gong, e iniziò a saltare come un canguro, per il gol segnato. Nel frattempo la voce familiare di Marco la richiamò alle sue spalle: «Hai preso tutto? Possiamo andare?»
«Sì. Le mie cose sono già nello zaino», rispose la donna, indicando la sacca al marito. «Sarà un’estate molto lunga» aggiunse con un filo di voce. Uscirono insieme dall’aula senza aggiungere altre parole e Giulia si infilò a testa bassa nel corridoio che portava sul retro, dove aveva lasciato la bicicletta. Entrarono in strada passando dal cancelletto sul lato della palestra, mentre il chiasso dei bambini, che giocavano in cortile, arrivava attutito dalla sagoma dell’edificio. Tutto intorno c’erano solo il ronzio degli insetti, il profumo di erba tagliata e il sole caldo sulla testa, le offerte di un’estate che provava, senza riuscirci, ad asciugare gli occhi lucidi. Marco intuiva benissimo la tempesta di pensieri nella testa della moglie. Ci era passato anche lui un paio d’anni prima ed era dovuto arrivare il Natale, prima di riuscire a metabolizzare la cosa. Ed in effetti, come aveva detto Giulia, la prima estate era durata un’eternità. A settembre gli era sembrato assurdo guardare la moglie che entrava a scuola, seguita dalla nuova covata di pulcini della prima classe, mentre lui, nella sua nuova veste di ex-maestro, ora pensionato, se ne stava fuori dal portone. Per diversi giorni gli era venuto spontaneo percorrere in bicicletta il solito tratto di strada fatto per anni, tranne poi fermarsi fuori dalla cancellata, ad osservare, con gli occhi umidi. «C’è chi passa le mattine a guardare i cantieri, io guardo la scuola» commentava con gli amici, scherzando senza troppa convinzione. E ora toccava a lei. Per quanto ne avessero parlato nell’ultimo periodo, Marco sapeva che non c’erano anestetici adatti a quel momento. Avevano già una lunga lista di cose da fare per quell’estate, gite in posti mai visti e finalmente quella vacanza in Scozia, che avevano fantasticato sin dai tempi dell’Università, ma il suono dell’ultima campanella inevitabilmente si portava via una fetta di cuore. Poche cose potevano competere con la visione dei bambini dietro ai banchi, la loro allegria contagiosa, l’odore della polvere di gesso, le matite piantate nelle gomme come spade nella roccia. Niente più moschettieri armati di righello, ginocchia sanguinanti dopo una scivolata in cortile, aeroplanini in volo lanciati dalla solita mano anonima. Quel mondo sarebbe mancato a Giulia come era mancato a lui per mesi, in attesa che nuove abitudini e nuovi passatempi arrivassero a riempire il buco, come è naturale che sia. Ora però, c’era una ferita fresca da tamponare. Salì sulla bicicletta e fece cenno alla moglie di seguirlo. In pochi minuti, raggiunsero una stradina di campagna costeggiata da un lungo filare di gaggie, che tagliava in due i campi di frumento, fino a terminare in uno spiazzo, vicino alla sponda del torrente. Avrebbero ritrovato quel posto anche pedalando con una benda sugli occhi, guidati solo dal profumo dei fiori e dalla memoria.
«Aspettami qui. Non guardare!» disse con un sorriso, invitando Giulia a sedersi sull’erba, girata verso l’acqua. Nonostante la vicinanza alla città, quel posto era un angolo di paradiso, fatto apposta per sciogliere la tensione che ancora prendeva Giulia allo stomaco. L’estate, che prima sembrava un nemico che bussava alle porte, ora si esibiva con il meglio del repertorio, un’armonia di farfalle colorate, ronzio di api e sole caldo. Il silenzio era rotto solo da un rumore curioso alle spalle della donna, un insieme strano di foglie struscianti, rami spezzati, parolacce dette sottovoce da Marco ed il tocco metallico del campanello della bici.
«Ahia, porca miseria!» si lasciò scappare l’uomo a denti stretti. «Non girarti!» aggiunse subito. «Arrivo.»
Giulia sentì i passi in avvicinamento e poi il braccio di lui, che le stringeva la vita.
«Chiudi gli occhi e respira» le disse.
Il profumo dolce e inconfondibile della gaggia le riempì i polmoni, riportandole il sorriso, e avvertì la carezza fresca dei petali sul collo. Aprendo gli occhi, vide un grappolo di fiori bianchi davanti al viso, con qualche fogliolina macchiata di sangue rosso vivo e un paio di spine infilate nella mano del marito che reggeva il mazzolino. Perché Marco era uno che manteneva le promesse importanti, ma per certe cose aveva la memoria corta.
Menzione speciale per la Narrativa: Daniele Bondi con “Miraggio estivo”
In quel torrido mese di Giugno, Ferrara si nutriva del sapore amaro che hanno le aspettative deluse. Il profumo dei tigli riempiva le strade silenziose del primo pomeriggio insinuando languori sentimentali. Camilla, con i suoi ventiquattro anni e i suoi studi di Biologia, si sentiva in bilico tra la concretezza degli impegni universitari e le pulsioni istintive che la notte le portava. Verso sera era solita farsi una passeggiata lungo le mura cittadine, perdendosi nei suoi pensieri. Ferrara era una città densa di storia, capace di fermare il tempo, ma lei desiderava l’esatto contrario: che il tempo si aprisse come un ventaglio e che accelerasse, rivelandole nuove possibilità. C’era una mancanza, in lei, qualcosa che non riusciva a definire. Sognava un amore come quelli descritti nei grandi romanzi che leggeva, un legame capace di intrecciare la sua anima con l’ideale gemella. Si perdeva molto spesso a immaginarsi, mano nella mano, con un ragazzo che fosse sensibile, gentile e colto. Quando arrivò Luglio e la calura estiva raggiunse il suo picco estremo, Camilla decise di lasciare Ferrara per qualche giorno. Scelse le Dolomiti, sperando che le montagne potessero ridare respiro al suo animo inquieto. La prima escursione la portò al lago di Braies che la accolse con la sua bellezza disarmante: l’acqua trasparente, circondata da vette che sembravano scolpite nel cielo, aveva qualcosa di magico. Camilla si sedette sulla riva, osservando le onde che la brezza generava sullo specchio lacustre. Fu lì che incontrò Federico. Camminava lentissimo perché intento a leggere. Il libro tra le sue mani catturò subito la sua attenzione: Madame Bovary. Camilla fu attratta non solo dal romanzo – uno dei suoi preferiti – ma dal modo in cui lui lo sfogliava, come se accarezzasse i capelli della sua amante. I loro sguardi si incrociarono e fu lui a parlare per primo. “È incredibile come ogni volta che leggo Flaubert, riesco a scoprire qualcosa di nuovo” le disse proprio così, senza presentarsi, alzando lo sguardo dal libro e accennando un vago sorriso, come se Camilla fosse una sua conoscente e non certo una sconosciuta incontrata per la prima volta. Camilla confessò di aver molto amato quel libro per lo stile impeccabile del suo autore. Il loro dialogo si aprì come una diga. Affinità elettive? Federico era di Bologna e aveva una passione per la Letteratura talmente intensa che andava molto al di là delle necessità universitarie e del progettato futuro da docente. Parlarono a lungo, scambiandosi pensieri e opinioni. Federico le confidò che amava Baudelaire. “Le poesie di Baudelaire sono come specchi deformanti” le disse. “Ci mostrano ciò che siamo, ma anche ciò che potremmo essere. Nei suoi versi il bello e il brutto si fondono in qualcosa di sublime”. Camilla annuì. Lei stessa aveva letto I Fiori del Male, trovando in quelle liriche una bellezza oscura e ipnotica, capaci di trasmettere la possibilità di redenzione anche descrivendo il baratro delle sofferenze più atroci. Ma fu quando tornarono a parlare di Madame Bovary che il dialogo divenne più intimo. Federico descrisse Emma Bovary come “una donna intrappolata tra il desiderio e la realtà, tra ciò che sogna e ciò che vive. Emma è prigioniera dei suoi sogni. Vive divorata da un’idea romantica dell’amore e della felicità che la spinge a cercare qualcosa che esiste solo nella sua immaginazione”. Camilla ascoltava con attenzione, trovandosi in parte d’accordo, ma sentendo anche il bisogno di difendere Emma. “È vero, ma non credi che sia anche una vittima del mondo in cui vive? Flaubert la ritrae in modo così crudo che quasi la giudichiamo, ma io non riesco a non provare compassione per lei. Emma desidera qualcosa di più di ciò che ha e questo la rende straordinariamente umana”. La conversazione si spostò su Hermann Hesse.“Siddharta mi ha insegnato che la ricerca della felicità non è qualcosa che trovi all’esterno. È un viaggio interiore”. Federico si illuminò. “Hesse è un maestro dell’anima. Ma io credo che il viaggio interiore, per essere completo, debba anche essere condiviso. È nelle relazioni che troviamo lo specchio del nostro io”. A queste parole, Camilla avvertì un tuffo al cuore. Fu come un fulmine a ciel sereno, una scossa elettrica ad alto voltaggio, una carezza amorosa da brividi. Le parole di Federico erano scivolate in profondità nel suo animo, facendo vibrare corde che nemmeno lei sapeva di avere. Passeggiando intorno al lago, parlarono dell’Università e delle propri famiglie di origine. Si scambiarono i numeri di telefono con la promessa di rivedersi in Agosto a Rimini dove, casualmente ma forse non troppo, avevano entrambi in programma di andare prima di rituffarsi negli impegni di studio. Camilla se ne tornò in albergo felice come mai si era sentita prima di allora. Le settimane che la separavano dalla partenza per Rimini le parvero interminabili. Di tanto in tanto gli scriveva qualche messaggio per ricordargli del loro prossimo incontro e avere conferma delle di lui intenzioni. Federico le rispondeva sempre con puntualità, ma Camilla ebbe più volte l’impressione che il coinvolgimento emotivo di lui fosse meno intenso del suo. Sta di fatto che, nel restante periodo, mentre lui era concentrato sui suoi studi e viveva delle sue passioni letterarie, lei faticava nella stesura della tesi perché viveva di speranze, aspettative e immagini che le si agitavano nell’anima e non riusciva a governare. Non stando più nella pelle, Camilla decise di andare a Rimini con una settimana di anticipo. Si portò in valigia Madame Bovary che rilesse in spiaggia nei primi due giorni. Poi iniziò Anna Karenina e fece lunghe passeggiate sul bagnasciuga ascoltando
in cuffia Claudio Baglioni e anche tanta musica classica. Il giorno in cui arrivò Federico il tempo peggiorò bruscamente. Nuvoloni neri e spessi apparvero dall’entroterra e cominciarono a scaricare piogge abbondanti sul litorale. Camilla se ne restò nella sua camera d’albergo in attesa del messaggio su cui aveva riposto tante speranze. Messaggio che arrivò con qualche ora di ritardo, solo verso sera. “Ciao Camilla, sono arrivato adesso. Se vuoi ci vediamo domani sera nella pizzeria sotto il tuo albergo”. La sera dopo, nel ristorante, i due giovani si aggiornarono sui rispettivi progetti post-universitari e si scambiarono opinioni letterarie anche su Dostoevskij. Discussero di Delitto e castigo. “A tuo parere le colpe si pagano, prima o poi? Hanno un senso, per te, teorie come quelle del Karma o dell’Inferno?” Federico inarcò le sopracciglia all’insù e le labbra all’ingiù. “Non credo in Dio e neppure nel Karma. Penso che la vita sia un evento del tutto casuale, che non ci sia alcun disegno o progetto divino, nessuna resurrezione dai morti, nessuna reincarnazione”. Camilla incassò il colpo e cominciò a pensare che, per quanto attraente, quel ragazzo era distante anni luce da ciò che lei desiderava. La passione che lui nutriva per la Letteratura l’aveva attratta e riempita di speranza leopardiana, ma ora scopriva che Federico, quella passione, l’aveva sublimata al punto che a lui bastava per colmare ogni vuoto di natura affettiva perché ormai irrimediabilmente sedotto dalla bellezza di questo o quello stile letterario. Usciti dalla pizzeria, sostarono per qualche minuto ad osservare quella pioggia battente che aveva fatto svanire in un sol colpo tutta la magia del loro primo incontro. Tanto è vero che Camilla lo salutò limitandosi a stringerli la mano e ad augurargli buona fortuna. Il giorno dopo, lei restò in camera per terminare Anna Karenina. Quando, verso sera, stava facendo le valigie, un arcobaleno si aprì sopra il mare, tingendo il cielo di colori irreali. Il telefono vibrò: un messaggio di Federico. “Rivediamoci, ho qualcosa di importante da dirti”. Camilla esitò, il cuore le diceva una cosa e la testa un’altra. Alzò gli occhi verso l’arcobaleno. Grazie ai suoi studi, sapeva bene che non era reale. I colori che vedeva non erano affatto un qualcosa che esisteva nel cielo e che i suoi occhi si limitavano a registrare. No, erano il risultato della rifrazione della luce nelle gocce d’acqua che in virtù di a certe frequenze l’occhio e il cervello sono in grado di percepire, anzi, di co-creare. Fu lì che capì: anche Federico era stato niente più che un miraggio estivo che lei stessa aveva generato. Non tanto l’uomo reale, ma l’immagine che lei aveva costruito di lui nelle sue fantasie, un’illusione nata dai suoi desideri e proiettata su uno studente di Bologna. Sorrise, rispose che ormai era sulla via del ritorno e salì sul treno. Federico, seduto sulla spiaggia nella serata dell’arcobaleno, stropicciava la poesia che aveva scritto per lei e che lei non avrebbe mai letto. Tornata a Ferrara, Camilla si sentì diversa. Aveva scoperto che non esistono eventi “oggettivi” perché ogni essere umano partecipa sempre attivamente al loro manifestarsi proiettando le proprie aspettative sugli stessi. Decise allora che, da quel momento in poi, non avrebbe più “subìto” le tempeste come una barca alla deriva, ma le avrebbe sempre affrontate soppesando le proprie responsabilità per poi trovare la forza di vedere oltre le illusioni.
Ferrara, con le sue mura e il suo silenzio, non era più una gabbia. Rinfrescata dai temporali di fine agosto, era diventata il punto di partenza di un nuovo viaggio, tutto suo.
1° Classificato Poesia: Morena Festi con “Amaro sale nel sole di Agosto”
Crocchiano e scrocchiano
le foglie arse dal sole,
straziano il pensiero
stridenti voci
di cicale fantasma,
arrotola l’aria
vaneggianti miraggi
sulla strada a specchio.
Arroventa il giorno
e spacca il respiro
in ansiti assetati,
sale nella bocca
negli occhi e sulla pelle,
sale sudore e fatica
di persone
non più persone.
Tra campi prigione
sale sudore e fatica
di braccia e gambe schiave.
Amaro sale nel sole di Agosto.
2° Classificato Poesia: Matilde Galizia con “Ci sarà un’altra estate”
Ci sarà un’altra estate,
scalza percorrerà sentieri lastricati di sogni.
Riderà degli sguardi furtivi, delle carezze appena accennate
nei pomeriggi lunghi di sole.
Ci sarà un’altra estate.
Sorprenderà corpi caldi di sabbia
nelle notti di stelle cadenti.
Ci sarà un’altra estate
Di albe odorose di pino,
di lune ondulate,
di parole di carta.
Ci sarà un’altra estate
e il mare avrà ancora i tuoi occhi,
la carezza lieve della brezza le tue mani.
3° Classificato Poesia: Luigi Brasili con “Qualche estate fa”
Eolo soffiava nel buio futuro,
mentre il presente, di lampi e di sangue,
serbava un porto alla libera mente.
Ai confini del regno dei figli di Elleno,
Pandataria accoglieva uomini e donne,
diversi di stirpe, uguali di speme.
Oppressi dal mondo, vicini nel cuore,
guardavano ai giorni di calma e di pace,
al mare ch’è dolce nel puro pensiero.
Di placide onde, o di spuma selvaggia,
le acque salate, amare dagli anni,
si fecero miele, ai più illuminati.
Come iniziati, novelli profeti,
tesero mani, trascrissero temi,
messaggio in bottiglia per lidi lontani.
La carta si fece strumento potente
per chi sa guardare al di là della notte
e cogliere stelle a formare galassie,
o come isole, divise dai flutti,
si abbracciano a scogli d’uguale sostanza,
e fanno di querce, o d’abeti, foreste.
Un tronco è marino, un altro montano,
intorno una casa, un ruscello, un bambino,
e dita che sfiorano dita, unite a sfiorare la sabbia.
A volte, sovente, una bottiglia si perde,
il vetro si rompe, la carta si bagna,
e la nera corrente un messaggio si prende.
Ma non può esistere nessuna galassia
che sia fatta solo d’un sole,
d’una sola bottiglia, di sola carta.
Fatti siamo della materia delle stelle,
dicono alcuni, non solo i poeti.
E nessuna stella, è isola d’uomo.
E mentre s’oscura, una piccola stella,
mille, migliaia, accendono il cielo,
laddove vegliano Teti, e l’Oceano.
Menzione Speciale Poesia: Anna Boccafogli con “Tempo d’estate”
Tempo d’estate
sotto i pergolati di vite
e glicine
macchie di luce e ombra
come in un quadro impressionista.
Profumo di lavanda
di pulito e cura,
bombi frenetici
e cavolaie come veli fluttuanti,
fiori in volo.
Vento del sud
galoppo di nubi bianche
e il richiamo del gheppio
che veleggia immobile
nella spirale azzurra.
Menzione Speciale Poesia: Franco Casadei con “Agosto in Sicilia”
Polvere nell’aria di scirocco
il vento piega le sterpaglie,
nella campagna ormai stremata
i muri di sasso rovente
cingono le vigne
d’improvviso una pioggia generosa
ha pietà della terra incenerita,
in steli arditi germoglia
qualche fiore audace.
Menzione Speciale Poesia: Maria Rosaria Fonso con “L’estate del vivere”
Così bambina che ancora giocavo
con le fate e al galoppo correvo
in sella al cavalletto del bucato
sulle strade dell’immaginazione
fino a scavalcare l’orizzonte;
così semplice che mi bastava
la casa di nonna per fare vacanza:
l’estate, la terra, bere dal mestolo
e invece di dormire spiare i grandi
tra le fessure del tavolato;
così vivace da far nascondino
tra le carrette, i trattori e più in là
per giungere al campo di granoturco:
e infilarmi nel labirinto di steli
tra schiocchi di secco e brillio di polvere;
così eclissata e distratta dal mondo
da perdermi in mezzo a quel mare
di pannocchie, di foglie e di terra
che nei sandaletti di tela lisa
pungeva lieve di fastidio a granelli;
così trasognata da quel lucore
da sentirmi rapita in una magia
che mi prendeva alla gola:
mi sollevava la meraviglia
di sentirmi parte di un prodigio dorato.
Così mesta oggi vorrei un rifugio lucente
dove andare a schiarirmi i pensieri
e ancora bere di quel dolce stupore
che sgrava il giorno, il tempo, il mondo
e restituisce il gusto del vivere.